Vangelo Laico

Metalogo: Questioni di meta-morale

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I nostri evangelisti Bruno, Gilberto e Giovanni, stanno cenando in un ristorante dove ogni tanto s'incontrano per cercare insieme, tra una pietanza e l'altra, la formula intellettuale e morale che salverà la specie umana da una prematura estinzione.

[Bruno] Cari amici, la volta scorsa ci siamo resi conto del fatto che per discutere adeguatamente di morale occorre prima di tutto rispondere ad alcune domande fondamentali sulla morale stessa, cioè domande sulla sua essenza, sulle sue origini e sui suoi fini (o la sua utilità), e soprattutto sulle sue implicazioni rispetto all’agire di un essere umano e alla posizione di questo nella società. In altre parole, prima di discutere di morale dovremmo parlare di meta-morale. Infatti credo che questa regola si debba applicare a qualunque discussione su qualunque tema che non sia stato adeguatamente definito in precedenza, e la cui definizione non sia sufficientemente condivisa.
Comincerei allora col dire che, a mio parere, la morale consiste nel giudizio di valore sul comportamento umano rispetto a certi principi, criteri o modelli considerati “buoni” per tutti gli esseri umani, oppure per una certa comunità o categoria di persone, con le eccezioni e le relativizzazioni del caso. In tal senso ogni essere umano è soggetto e oggetto di giudizio morale, e capace di giudicare sia gli altri che se stesso. Aggiungerei che un giudizio morale “negativo” comporta una “colpa” a carico del giudicato, il quale, di conseguenza, “merita” una punizione. Questa, nel peggiore dei casi, consiste nell’espulsione temporanea o permanente del giudicato dalla comunità, o in una riduzione della cooperazione nei suoi confronti da parte di altri membri della comunità stessa. Analogamente, un giudizio morale “positivo” comporta un “premio” per il giudicato, premio che potrebbe consistere, ad esempio, in una migliore posizione gerarchica nella comunità, o in altri vantaggi materiali o immateriali.
Che ne pensate di questa mia personale definizione della morale? Voi come la definireste?

[Gilberto] Sono d'accordo con le premesse epistemologiche di Bruno sul concetto di morale, premesse sulla base delle quali possiamo elaborare discorsi sensati e pragmatici. A proposito di epistemologia, mi viene in mente che in questi ultimi cinquant'anni c'è stata una revisione dei fondamenti delle varie scienze. Dalla matematica in poi, ogni disciplina ha dovuto render conto delle sue basi epistemologiche. Forse manca all'appello proprio la morale. Infatti, nel vasto campo delle religioni, dei miti, delle cosmogonie e dell'esoterismo non c'è mai stato bisogno di revisioni, ad eccezione di qualche scisma: il credente doveva e deve solo... credere ed obbedire rinunciando a qualsiasi critica razionale. Le regole gli vengono date, vengono addirittura scolpite sulla pietra; o capillarmente disperse in volumi e papiri sacri. Anche alle idee più assurde viene trovato un senso, e la psiche può dormire sogni tranquilli. All'altro estremo si sono dati da fare pochi grandi pensatori. A partire da Epicuro, fino ai moralisti scozzesi, a Spinoza e a Kant, essi hanno fatto grandi sforzi per costruire un’etica alternativa, non imposta da enti soprannaturali, ma generata per così dire dalla stessa natura umana, sia razionale che passionale, sia individuale che sociale. Spinoza ha cercato addirittura di imitare le dimostrazioni di scienziati come Euclide e Newton per costruire il suo sistema morale. Ma che dire del comune cittadino? Chi lo ha aiutato a districarsi tra questi due tipi di morale? Ben poco si è visto. Solo recentemente una nuova morale ha cominciato a delinearsi ad opera di alcuni pensatori "immanentisti", "interazionisti" e "costruttivisti", come George Herbert Mead, Gregory Bateson ed Edgar Morin. Il loro pensiero promette di gettare un ponte percorribile dall'uomo comune, per conciliare le grandi dicotomie esistenziali come: materia e mente, contingenza e permanenza, teoria e pratica, relativo e assoluto, passione e ragione, libertà e determinismo, egoismo e altruismo, uguaglianza e diversità, tutti termini che non debbono essere considerati mutuamente esclusivi secondo una rigida logica aristotelica, ma inclusivi. Penso che una meta-etica dovrebbe avere come motivo conduttore questa inclusione e integrazione degli opposti, perché il bene e il male non sono mai perfettamente separabili né perfettamente definibili.

[Giovanni] Bene! Il discorso si fa interessante. Bruno enuncia una definizione di morale, con cui mi trovo d'accordo. Gilberto lancia degli spunti utili per affinarla e renderla più elaborata e "umana". Inclusività e conciliazione degli opposti sono parole chiave, che intuisco, forse sbagliando, essere riconducibili a una categoria più astratta. Su due piedi, non saprei darle un nome; per continuare il mio discorso, permettetemi di usare "dinamicità" come segnaposto. In che senso una morale e una meta-morale possono essere dinamiche? Lo sono se riescono a comprendere e gestire efficacemente ogni discostamento dai principi che affermano. La moralità ha come suo opposto la a-moralità (i nostri antenati direbbero "il peccato"), e la nostra meta-morale deve consentirla e guidarla (come momento evolutivo), permettendo, al tempo opportuno, un "ritorno all'ovile". Giusto dunque condannare le trasgressioni: ma la condanna deve essere ragionevole, proporzionata e comprensiva delle ragioni dei comportamenti devianti. Solo così può costituire un giusto riconoscimento, al contempo, della libertà individuale (che include come possibilità, appunto, anche la trasgressione) e della responsabilità di ciascuno nei confronti altrui. Insomma, nessun inferno infuocato, ma anche nessuna assoluzione acritica. infatti, solo se permettiamo di peccare e diamo ai peccati il giusto peso, all'ovile farà ritorno non una pecorella, ma una persona, e una persona diversa da quella che era partita. Più conciliante, dinamica, e in grado, finalmente, di accedere a un livello "meta".

[Bruno] Mi pare che ad ogni nostro intervento il campo di indagine si estenda, col rischio di smarrirci in un dedalo di considerazioni. Cercherò dunque di ricapitolare i fili del nostro discorso tentando di ricondurli ad un’unica trama, ma solo ai fini di una discussione produttiva, perché so bene che un tema come quello della morale è un groviglio di trame. Sono d’accordo con i vostri interventi, Gilberto e Giovanni, e cercherò di seguire le strade dei vostri ragionamenti, per vedere dove ci portano. Gilberto, tu poni l’accento sulla necessità di conciliare e integrare gli opposti (reali o apparentemente tali) mentre tu, Giovanni, ti soffermi sull’importanza di considerare la morale come un fatto “dinamico”, che consenta ad ogni umano di oscillare tra moralità e immoralità senza che vi siano giudizi morali irrimediabili o indiscutibili da parte di nessuno (né in senso di disapprovazione né di approvazione). E mi pare che secondo voi (e anche secondo me) tale conciliazione e tale flessibilità siano indispensabili per poter discutere di etica ad un livello superiore, ovvero, per parlare di meta-etica. Sulla base di tali premesse, prima di entrare nel merito di cosa sia la morale e di cosa essa implichi (con l’obiettivo ultimo di stabilire una serie di regole morali praticabili), ritengo utile porci una domanda la cui risposta potrebbe aiutarci non poco nella nostra ricerca: perché certe persone (come, ad esempio, noi stessi), si interessano di etica? Infatti credo che il motivo conscio o inconscio per cui ci interessiamo di morale potrebbe orientare la nostra ricerca costituendo un bias cognitivo che ne influenza i risultati. E siccome sappiamo quanto un bias cognitivo possa falsare un ragionamento, vorrei tentare con voi di rispondere alla domanda che ho appena posto. La mia risposta è molto semplice: secondo me ci si interessa di morale per poter fare ciò che si desidera evitando di essere disapprovati da qualcuno. In altre parole: ci interessiamo di morale per acquisire un know-how che ci consenta di evitare di essere disapprovati. Credo che tale risposta si applichi in primis a me stesso. E secondo voi perché quelli che si interessano di morale se ne interessano? E voi stessi perché vi interessate di morale?

[Gilberto] [Gilberto] Caro Bruno, vedo che ti piace sparigliare le carte e cambiare gioco tout à coup; e va bene; ma non lamentatevi se adesso vi inonderò di notiziole biografiche. Mi chiedete perché mi occupo di morale, e pertanto devo tornare alla mia gioventù, perché allora l'interesse è nato. Una breve riflessione ha portato alla luce due grandi esperienze. La prima riguarda l'adolescenza, quando mio padre ebbe la grande idea di iscrivermi ai Boy Scouts. Fu una esperienza formativa e meravigliosa per un ragazzetto curioso che si affacciava alla vita. Divenni presto un "capo sestiglia" ed imparai la bellezza dell'appartenenza ad un gruppo con cui si condivideva tutto; la vita nella natura; l'autosuffcienza al punto di farsi la capanna e dormire all'addiaccio; le storie di Kipling raccontate intorno al fuoco. Questa gioia di "appartenere" non mi abbandonò più. La seconda esperienza fu quella della scuola, dove invece dovevo competere ed affermarmi, puntando tutto sull'intelligenza. Al liceo mi capitarono due compagni, veramente geniali. Con loro fu una lotta per i voti migliori. Ma quello che mi colpiva di loro, ad esempio nei temi che scrivevano, era una forma di assoluto egocentricismo, di insensibilità ai temi sociali, e di tendenza ad un eccentrico e quasi esasperato uso del loro pur brillante cervello. Tenete presente che in quegli anni scoppiò anche il '68. Di nuovo, solo io, tra i miei compagni di classe ed amici, sentii subito il desiderio di unirmi alle prime "manifestazioni". In quei giorni riprovai potente la gioia di far parte di un gruppo di giovani che avevano anche un ideale di giustizia sociale. Ecco qui la nascita del mio "istinto" morale, che correva già su un doppio binario: una base emotiva e sociale (oggi ampiamente rivalutata), su cui sentivo l'esigenza assoluta di immettere una misura "umana" di intelligenza, senza che si disperdesse invano nell'eccentricità. Dimostrare che la moralità, che per me è in larga parte giustizia ed appartenenza al consorzio umano, è anche naturale perché intelligente. So che con questo finale potrei provocare discussioni a non finire e mi fermo. Aggiungo che, certamente, innumerevoli volte ho usato trucchi morali "pro domo mea".

[Giovanni] E' una domanda che non mi ponevo da tempo. Da bambino mi accorsi presto, o meglio, mi fu detto, che esiste una morale "data", giusta, che tutti dobbiamo seguire. Di questo erano evidentemente convinti tutti. Il problema era che ognuno seguiva una propria morale, diversa da quella altrui, ritenendola l'unica giusta. Addirittura, incontrai persone che seguivano contemporaneamente più morali (!) tra loro incompatibili, facendo ora ricorso all'una, ora ricorso all'altra. Da precisino qual ero (e sono), ovviamente, la cosa non mi andò affatto giù. Presi per buono il principio: esiste una morale giusta. Pensai però che i miei genitori, e tutti gli altri, non la conoscessero. Mi venne dunque naturale interrogarmi sul Dio: è lui la fonte della morale, il nostro legislatore? L'idea non mi dispiacque: se non altro, avrei potuto aspettarmi coerenza ed equità. Ci fantasticai su per un po', poi, con l'adolescenza, smisi di cercar nel cielo della divinità rivolgendomi a quello delle idee. "Quale morale è opportuno seguire, secondo ragione?" Ripartendo da qui, giunsi presto a interrogarmi su quali parametri fosse opportuno utilizzare per deciderlo. "Da dove dovrei iniziare per srotolare la matassa?", mi chiedevo. "Di cosa posso essere certo?". Non delle steli di pietra, naturalmente. Nemmeno però, mi dissi a un certo punto, dei miei pensieri, che potrebbero essere fallaci. Mi misi dunque nei panni di un filosofo, o forse epistemologo, in erba. Giunsi alla conclusione che la ragione, da sola, non basta. Che essa è solo uno strumento, e non può fondare una morale. Dove rivolgere dunque lo sguardo? Con entusiasmo, volontà di proseguire la mia ricerca e il brivido dell'esplorazione di un territorio selvaggio, mi dissi che, non essendovi alcun fondamento astratto (verità a cui ero giunto attraverso il ragionamento), potevo/non potevo che fondare le mie azioni su ciò che sento. Sui miei desideri e le mie emozioni, dunque. A questo punto interruppi la mia ricerca e iniziai a vivere più liberamente, "nell'attimo", concedendomi un po' di sano irrazionalismo. Oggi, mi rendo conto che commisi un errore, in quanto raramente ciò che sentiamo coincide con una nostra verità profonda. Più spesso, dipende da ciò che crediamo e pensiamo. E' necessaria dunque un'integrazione tra bisogni, emozioni, credenze e idee. Ed eccomi dunque di nuovo a interessarmi di morale. Oggi, come allora, allo scopo di vivere al meglio possibile il tempo che ho a disposizione.

[Bruno] Cari amici, trovo i racconti delle vostre passate esperienze in tema di morale molto interessanti, oltre che, senza esagerare, quasi commoventi. Per par condicio dovrei anche io raccontare qualcosa della mia storia a tale riguardo, e prima o poi forse lo farò. Ma per il momento vorrei farvi notare che non avete risposto alla mia domanda, o, se preferite, avete risposto ad essa in modo non pertinente. Infatti, non vi ho chiesto quali siano state le vostre prime esperienze “morali”, ma perché avete sentito il bisogno di affrontare problemi morali, ovvero perché vi siete fatti domande di tipo morale. Giovanni ci ha detto che da bambino si chiedeva cosa fosse giusto fare, e noi tre ancora oggi ce lo chiediamo. Ma perché ce lo chiediamo? Gilberto ci ha parlato del piacere dell’appartenenza ad un gruppo. Che nesso c’è con la morale? Inoltre Gilberto ci ha detto che era colpito, e forse disturbato, dall’arrivismo dei suoi compagni di liceo, così egoisti e insensibili ai temi sociali. Ma perché quei comportamenti lo colpivano? Forse la risposta è per voi ovvia, forse pensate che vi sia nella natura umana una naturale tendenza a porsi problemi morali, ma questa, a mio parere, sarebbe una spiegazione dello stesso tipo del “principio dormitivo” di Molière. Giovanni ci ha detto di ritenere che la morale non può derivare solo dalla ragione, ma anche dai desideri, dalle emozioni, perfino dalle credenze, e che ritiene che adottare una giusta morale possa portarlo a vivere meglio, ma non ci ha spiegato il nesso tra il tipo di morale e la qualità della vita. Perciò, scusate se insisto con la mia domanda. Se l’uomo si occupa, o meglio, si preoccupa, di morale, perché lo fa? Quali pressioni o logiche consce e inconsce lo spingono a farlo, e a quale scopo?

[Giovanni] Non sono sicuro di capire cosa ci chiedi, Bruno. Perché noi uomini ci occupiamo di morale? Perché abbiamo bisogno di regolarci: di darci delle regole il più possibili efficaci e corrispondenti ai nostri bisogni. Siamo naviganti sul mare della vita, imbarcati su quel guscio di noce che è la nostra individualità. Non possiamo controllare molto, ma qualcosa sì. Seguire una morale consiste nel riparare la chiglia quando è necessario, nel regolare l'apertura delle vele in base al vento, nel muoverci opportunamente tenendo conto di onde, correnti e maree, nel decidere quando tenere in ordine il ponte e quando lasciare che venga lavato dalla pioggia. Ho risposto alla tua domanda?

[Bruno] Sì Giovanni, hai risposto in modo pertinente alla mia domanda. Hai detto in sostanza che ci interessiamo di morale perché abbiamo bisogno di regolarci, e io ne convengo. Tuttavia, non mi contento di tale risposta, come generalmente non mi contento di alcuna risposta a qualunque domanda. Conoscete il “gioco del perché”? E’ un gioco da bambini, ma per me è anche un gioco da adulti un po’ speciali. Consiste nel chiedere all’interlocutore il perché di una certa cosa qualsiasi e, ad ogni risposta, chiedere il perché della risposta, cioè il perché del perché, e poi chiedere il perché del perché del perché, e così via senza fermarsi mai finché non sopravviene la stanchezza, il fastidio o la noia. Per esempio, nel nostro caso potrei chiedervi: e perché abbiamo bisogno di regolarci?

[Gilberto] Perché abbiamo bisogno di regolarci? Mi vengono in mente tanti motivi. Risponderei: perché non ci si riconosciamo nei modi di vivere consueti; perché abbiamo bisogno di ordine in una vita che sentiamo contingente e caotica; perché ci sentiamo angosciosamente fuori controllo; perché abbiamo bisogno di "efficacia" nel cercare di soddisfare i nostri bisogni (e sui bisogni umani ci sarebbe molto da dire); perché vogliamo imparare a essere stabili sul rollio delle onde; perché dobbiamo darci delle regole adatte alla nostra natura per vivere dignitosamente ed al meglio nel caos della vita; e, banalmente, per "dare un senso alla nostra vita" (mi riferisco soprattutto alla vita sociale). In questo quadro possiamo parlare di tante cose: sviluppo della mente nei bambini, ruolo dei genitori, comando, bisogni, appartenenza, rifiuto, inconscio, libero arbitrio, "morale naturale", conformismo, equità, giustizia, ragioni, passioni, certezze, dubbi ecc.
Spero di aver risposto alla domanda di Bruno.
Tuttavia mi rendo conto che l’esplorazione dei problemi morali può durare tutta una vita e non finire mai, e, come diceva T. S. Eliot: "dopo un largo giro torneremo al punto di partenza, e conosceremo finalmente il posto per la prima volta".
Tanti autori ci hanno proposto i risultati della loro esplorazione del grande “anfiteatro della morale”, ad esempio Spinoza, con la sua “Etica dimostrata con metodo geometrico”, e Adam Smith, con la sua "Teoria dei sentimenti morali", un caposaldo della storia del pensiero occidentale, che influenzò anche Darwin. E non dobbiamo trascurare altri modi di esplorare l’etica, come i risultati di 20 anni di commenti dei lettori della rubrica "The Ethicist" del New York Times. Ritengo degno di nota anche il saggio “La mente etica” di Michael Gazzaniga, in cui l’etica viene esplorata con l’occhio delle neuroscienze. Ma credo di aver parlato troppo, e per ora non aggiungo carne al fuoco della morale.

[Giovanni] Perché abbiamo bisogno di regolarci? Beh, potrei rispondere che "siamo fatti così", e dal mio punto di vista sarebbe sufficiente. Infatti tutti noi dovremmo aver chiaro, intuitivamente, perché è una buona idea regolarci o, meglio, perché non possiamo farne a meno, e che la risposta coincide, né più né meno, con ciò che siamo: con la nostra natura. Se così non fosse, dovremmo chiedercene il motivo. Cosa ci spinge a "dimenticarci" ciò che siamo? Ma credo che questa mia risposta non soddisferebbe Bruno, anche se io la trovo molto concreta. Ne propongo dunque un'altra, più analitica e meno misteriosa, gettando lo sguardo, contemporaneamente, dentro noi stessi e al di fuori, nel grande mondo. Inizio col dire che la la regolazione di sé è semplicemente una necessità logica. A meno di non considerare gli esseri umani come degli automi - e c'è chi lo fa, ma io non condivido tale punto di vista - di fronte agli eventi della vita dobbiamo necessariamente compiere delle scelte. L'immobilità non coincide con l'anomia assoluta, rappresentando a sua volta una scelta: quella di non scegliere. A questo punto, possiamo alternativamente decidere se regolarci in modo passivo, senza pensare troppo a ciò che facciamo e lasciandoci trascinare dall'educazione che abbiamo ricevuto, dalla cultura in cui siamo cresciuti, nonché da regole interattive più profonde e inconsapevoli, sviluppate quando eravamo molto piccoli; o se cercare di introdurre una mediazione da parte della nostra coscienza. E' quest'ultimo un lavoro faticoso e impegnativo ma anche, ritengo, un modo per avvicinarci a una maggiore libertà. A una vita, se me lo concedete, più "nostra", più personale. Entrambe le strade, a ogni modo, portano da un lato a un nostro adattamento al mondo, tanto maggiore quanto riusciamo ad essere sottili e flessibili. E dall'altro lato a un adattamento del (nostro) mondo, piccolo o grande, ai nostri bisogni e desideri. Da un diverso punto di vista, inoltre, regolarci (nel modo giusto) ci permette di dare a noi stessi ciò di cui abbiamo bisogno in termini relazionali. Di "amarci", sostenerci, tranquillizzarci, incoraggiarci, limitarci, e così via. Insomma, di essere amici di noi stessi, concedendoci il piacere impagabile di un tocco disinteressatamente gentile.

[Bruno] Gilberto e Giovanni, mi pare che abbiamo fatto passi avanti nella nostra ricerca meta-morale. Avete detto tante cose interessanti che meritano di essere approfondite, e prima o poi lo faremo. Per ora mi limito ad osservare che avete entrambi, ad un certo punto, fatto riferimento ai bisogni umani. Potrei riassumere tali riferimenti dicendo che abbiamo “bisogno di regolarci” perché regolandoci in certi modi possiamo soddisfare bisogni vitali che non potrebbero essere soddisfatti in assenza di una regolazione. In altre parole, il bisogno di morale non sarebbe un bisogno fine a se stesso o primario (in senso genealogico o evoluzionistico) ma un bisogno al servizio di altri bisogni, che voi avete citato in modo più o meno esplicito e più o meno diretto. L’idea che i nostri discorsi mi suggeriscono è che l’uomo, non avendo istinti abbastanza forti e di sicura efficacia come gli altri animali, e avendo potenzialità e libertà (educate e manipolate dalla cultura) che nessun altro animale possiede, ha “bisogno di regolarsi” per non farsi del male agendo sconsideratamente, e per non fare male ad altri umani agendo egoisticamente in misura tale da inficiare l’indispensabile cooperazione sociale. Non so se per l’uomo si possa parlare di un “istinto morale”, nel senso di una motivazione innata, cioè scritta nel suo codice genetico (pare infatti che anche bambini di pochi mesi mostrino di avere un certo “senso della giustizia”). Resta il fatto che il grado di “coscienziosità” morale può essere molto diverso da persona a persona. Tuttavia penso intuitivamente che una sua totale assenza comporterebbe l’estinzione della nostra specie. Forse siamo geneticamente programmati in modo tale che almeno in una certa percentuale degli esemplari della nostra specie vi sia un senso innato della giustizia e un bisogno di regolazione (autoregolazione o alloregolazione). Mi piacerebbe conoscere il vostro parere riguardo a questa mia supposizione.

[Gilberto] Cari amici, volendo concludere questa digressione anche troppo interessante, vorrei produrre la mia "arringa finale". Non volendo però disattendere l'ultima richiesta di Bruno, farò solo dei richiami sul suo argomento. Il tema della autoregolazione è ben vasto, talmente vasto che sfuggo all'impegno citando uno studioso che lo ho affrontato con sintesi e chiarezza. Steven Pinker, nel suo "Better Angels of our Nature" gli ha dedicato una parte di un capitolo apposito, il nono, e ne parla diffusamente insieme ad un altro tema oggi molto noto, quello dell'Empatia. Torno quindi al mio finale, ed al mio peculiare "bisogno morale". Se posso dire grezzamente, io trovo che il versante della grande montagna morale che ben presto mi ha attratto per le sue faticose ed a volte disperanti asperità, è quello cognitivo. Cerco di spiegarmi. Ho avuto per bizzarre ragioni la ventura di crescere in tante famiglie; molto più in altre che nella mia. Ho avuto modo così di sviluppare una peculiare attitudine all'osservazione degli ambienti familiari. In essi ben presto questa definizione mi apparve dolorosamente evidente: un gruppo umano dove tutti dicono di volersi bene mentre in effetti tutti si fanno del male. Non è uno spunto che posso né voglio estendere qui; ma presto mi consolò la lettura di Pascal, quando anche lui osserva che "chi cerca il bene spesso fa il male, e viceversa", ed ancora "se l'uomo si vanta io lo avvilisco, e lo contraddico sempre finché capisca che è un mostro incomprensibile" . Inutile dire che quello che imparai non mi servì affatto a costruire una mia famiglia migliore. Mi resta quindi questo grande enigma: perché gli umani anche quando sono molto ben intenzionati, e si sforzano visibilmente di agire per il bene (quindi moralmente, ed anche spesso con profondità) finiscono molto spesso per ottenere scarsi risultati in termini di felicità, soddisfazione, cooperazione reciproca? La risposta, secondo me, va tutta cercata infine nel versante cognitivo. Nella limitata, volubile e fragile intelligenza di cui siamo dotati nelle varie età della vita (in tutte le sue declinazioni che ben sappiamo). Il tema dell'intelligenza, capace di generare serenità, felicità, duttile convivenza, gioia conviviale. Una intelligenza che pur nella giungla delle emozioni umane sappia “ottenere il bene, volendo il bene”: quello sì che è un tema per me appassionante... e sinora direi non risolto. Per uscire con eleganza, mi viene in mente Paracelso: "La maggiore conoscenza è congiunta indissolubilmente all'amore...Chiunque creda che tutti i frutti maturino contemporaneamente come le fragole, non sa nulla dell'uva."

[Giovanni] Bene, sembra che la carne al fuoco aumenti invece di diminuire. Se per stasera siamo sazi, propongo di aggiornarci alla prossima volta. Voglio comunque rispondere a entrambi, poiché entrambi avete toccato temi interessanti. A Bruno dico che sì, ritengo che l'uomo sia dotato di un senso di giustizia innato. Personalmente, sospetto che se si indagasse più a fondo il concetto di "giustizia", si arriverebbe a identificarlo con quello di... razionalità. Infatti la giustizia non consiste in null'altro, mi pare, che nel riconoscimento dei bisogni altrui e della loro importanza, nonché del contesto in cui le persone vivono e agiscono. A Gilberto, voglio invece rispondere, sperando di rincuorarlo un po', che non credo che l'uomo sia un legno storto, anche se è a volte facile pensarlo, e nemmeno un mostro incomprensibile, come scriveva in modo un po' troppo crudo Pascal. Ritengo piuttosto che gli uomini abbiano un bisogno radicale di prendersi sul serio: di rapportarsi a sé in modo autentico, sottile e onesto. Di ascoltarsi, curarsi e vivere in modo conforme a ciò che sono, e cioè di capire e guidare la propria vita. Nonostante le dicerie, la nostra cultura non esprime individualismo in senso proprio, in quanto è raro osservare qualcuno interessato a mettersi - davvero - al centro, ad ascoltarsi, guidarsi e coltivarsi. Si tratta di un'interruzione della conoscenza e, dunque, della razionalità, di un sonno della ragione. Ed è questo a distorcere il volto di taluni, fino a farli assomigliare a mostri.

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